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Questo non è il racconto dell'onda furiosa della Grande Storia sul destino di un popolo. Non solo questo. È una storia piccola, che ha il nome e il volto di una bambina. Zubaida vive nel deserto dell'Afghanistan, in un villaggio che la "guerra al terrore" non ha ancora travolto. Ha nove anni. Non sa niente del mondo oltre il suo villaggio, poco della travagliata storia del suo paese, dei cingolati dell'Armata Rossa, della lotta dei mujaheddin, del regime dei talebani che ha proibito anche gli aquiloni, degli elicotteri con la bandiera a stelle e strisce. Cammina danzando, a piedi nudi, al ritmo di una musica che le suona dentro. Ma non dopo quel giorno. Non da quando un terribile incidente le ha ustionato le mani, il viso, il corpo. Da allora, la musica si è spenta. In un paese privo della più elementare assistenza medica, e in cui la vita di una figlia femmina vale ben poco, non sembra una fortuna che Zubaida sia sopravvissuta. Ma non per suo padre, non per l'ostinata determinazione di un uomo disposto a tutto pur di non arrendersi. Dovesse camminare fino all'inferno per salvare quella bambina ferita, piagata, fasciata in mille bende, che ora urla per affermare la propria esistenza. Fino ai campi militari degli americani, con le loro regole incomprensibili. Fino a oltrepassare la linea di demarcazione tra due culture, tra "loro" e "gli altri". Perché Zubaida possa tornare a danzare al ritmo della sua musica.