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Un gatto davanti allo specchio. Che cosa vede? Si riconosce? Pare che alcuni vertebrati e invertebrati reagiscano alla loro immagine riflessa. E girini, ippopotami, ciprini dorati, macachi e gabbiani possiedono una qualche forma di consapevolezza? Insomma, esistono menti non umane? Quando Donald R. Griffin ci si avventurò da pioniere, quello dell'etologia cognitiva era un terreno vergine, a cui guardavano con sospetto l'imperante behaviorismo e quanti nel mondo scientifico ritenevano che l'indagine sulla mente degli animali fosse così scopertamente viziata da una proiezione antropomorfa da non poter rientrare in una seria ricerca sperimentale. Si obiettava che in fondo l'unico modo di accertare se un essere organico sia o meno cosciente - ossia in grado di fornire una relazione sul proprio stato introspettivo - sarebbe chiederglielo, oppure che la distanza filogenetica dall'uomo non autorizza l'attribuzione di una valenza simbolica a comportamenti come la danza scodinzolante delle api. La coscienza animale sembrava collocata senza speranza all'ultimo posto nel gradiente di accettabilità in campo etologico. Controargomentando via via, e sgretolando presupposti giudicati incrollabili, innanzi tutto la differenza qualitativa tra comunicazione umana e animale, Griffin opta per una calibratura estensiva e operativa del suo oggetto di studio: si concentra su immagini mentali, intenzioni, consapevolezza di cose e relazioni, ne rileva il carattere adattivo e intravede la direzione più proficua nell'esplorare la somiglianza delle funzioni neurali degli organismi pluricellulari. Grazie alla sua lungimiranza, oggi esiteremmo a sottoscrivere l'affermazione di Wittgenstein: «Se un leone fosse in grado di parlare, noi non potremmo capirlo».