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Nel "Mercante di Venezia", qui presentato in nuova traduzione, il mondo sembra nettamente distinto tra buoni e malvagi, cristiani ed ebrei, innocenti e colpevoli: ma così non è. Di fatto noi lasciamo il teatro con il senso che tutti i personaggi, in quest'opera composta tra il 1596 e il 1598, partecipino a un medesimo destino, che il peccato non sia solo dell'ebreo, ma anche del cristiano, che la finale solitudine e il dolore di Shylock siano anche quelli del suo antagonista Antonio; che il regno della bellezza e della favola rappresentato da Belmonte sia, come il Giardino dell'Eden, fatalmente incrinato dalla dura realtà di una Venezia che è metafora dello stato moderno. L'immagine finale che il "Mercante di Venezia" ci comunica è quella dell'umana fragilità e precarietà - non per Antonio soltanto, o per Shylock, si dovrà invocare la "misericordia", esaltata da Porzia in un grande discorso, ma per chi, come loro, e noi, è chiuso nell'argilla della condizione umana.